Emanuela Ulivi
Ogni guerra ne genera sempre un’altra, della quale non vengono mai forniti i dati. E' la guerra di chi non muore e quindi non fa notizia, o al massimo rientra nel conto dei feriti di qualche ospedale. Di chi pur non avendo mai preso un’arma in mano, ha subito o è stato testimone di atrocità che porterà sempre con sé. Dentro. Anche quando riesce a raggiungere una costa europea, incontrando un braccio che lo tira fuori dal mare o un filo spinato a sbarrargli il cammino.
Aya Mhanna, 30 anni, psicologa clinica e psicoterapeuta, ha curato in Libano e in Turchia dei rifugiati scappati dalla guerra. Si tratta di persone ferite nell’anima, vittime senza aver mai combattuto, ma che spesso agli orrori della guerra debbono aggiungere la frustrazione e la violenza – in particolare le donne e i bambini – nei campi profughi o sulla strada.
Che può fare un terapeuta di fronte a tanta sofferenza?
In Libano ho lavorato soprattutto con le donne e i bambini rifugiati dei campi e dei centri sociali. Invece in Turchia ho lavorato per lo più con uomini giovani, attivisti dei diritti umani e citizen journalists. Tutti soffrono a modo loro. Tutti hanno delle sofferenze espresse e non espresse e in quanto terapeuta, di fronte a tutto questa traumaticità e a difficoltà di vivere, ciò che noi facciamo è tentare il più possibile di fornire un sostegno a queste persone, diventiamo come delle stampelle che le aiutano a gestire meglio le fratture. Cerchiamo di dare loro una speranza di sopravvivenza nonostante tutto e di offrire uno spazio sicuro e stabile in cui esprimere ciò che vogliono: i loro problemi, ma anche le loro speranze e i loro ricordi, belli o brutti che siano. Quello che facciamo consiste sostanzialmente nel ricordare loro che sono vivi e che c’è una vita da vivere, comunque.
Oltre ai disturbi da stress post traumatico, quali patologie sono più frequenti e, nello specifico, sono guaribili?
Si può sempre finire per adattarsi alle difficoltà psicologiche se riusciamo ad esprimere le angosce, le paure e le speranze e se si riesce a trovare un modo per avere un motivo di sopravvivenza, sia per le persone affette da disturbo post traumatico da stress o da depressione, dipendenza, ecc. In realtà, spesso dimentichiamo a che punto sia arrivata la sopportazione del popolo siriano dopo cinque anni, ma resti ancora attaccato alla vita. I siriani sono resilienti. Vogliono vivere, è questo che ricordiamo loro anche quando soffrono. Il loro stato psichico, in seguito a quello che vivono, è difficile da spiegare, perché i meccanismi di difesa da parte degli adulti sono molto forti. Nei bambini invece si possono trovare e osservare facilmente dei disturbi del comportamento conflittuali, disturbi nello sviluppo e ritardo nel linguaggio. Purtroppo il sostegno non è sufficiente né in Siria né nei Paesi vicini.
Lei ha lavorato per delle ONG internazionali, come nel caso dei progetti per World Vision e per l’UNICEF. Può parlarci della sua esperienza?
In Libano ho lavorato a diversi progetti elaborati da ONG internazionali dal 2012 e dai primi momenti in cui sono stati individuati dei rifugiati siriani. Insieme a dei colleghi di arte-terapia ho fatto degli workshops negli spazi dedicati ai bambini, cercando di aiutarli a liberarsi delle tensioni in modo sano, di offrire loro un sostegno psicologico e di aiutarli ad esprimersi sul vissuto e sul presente in modo giocoso. Abbiamo lavorato anche a delle campagne di sensibilizzazione sulla prevenzione e sui danni del matrimonio precoce, sull’identità di genere ecc.. E’ stata un’esperienza ricca ma nello stesso tempo abbastanza frustrante per me perché molto condizionata dal poco tempo per poter avere davvero, secondo me, un effetto duraturo sul lungo termine.
E’ sufficiente per un bambino rappresentare le sue paure per tenerle sotto controllo? Chi sarà una volta diventato adulto?
Rappresentando le sue paure e esprimendo le sue angosce e i suoi timori, un bambino comunica per prima cosa una richiesta d’aiuto e di riconoscimento in modo indiretto. Da qui il passo successivo della tenuta sotto controllo che inizia con l’analisi di questo periodo per cercare di decolpevolizzare il bambino da ciò che accade intorno a lui, di aiutarlo a capire quello cui si trova in mezzo e a vedere nuove prospettive per l’avvenire. Una volta adulto, le sue ferite saranno certo interiori, presenti, perché certi ricordi traumatici non scompaiono mai ma sarà almeno cosciente del senso delle sue ferite.
Gli adulti che sono stati bambini di guerra hanno sicuramente un profilo ben distinto ma non si può generalizzare questo profilo con definizioni specifiche.
La vita delle donne nei campi è molto dura. Diverse sono state violentate mentre si moltiplicano i matrimoni delle bambine. Che può fare una terapista oltre al suo lavoro?
A mio avviso, al di là del suo lavoro un terapeuta deve egli stesso aiutare la comunità a prendere coscienza del pericolo di violenze contro donne e bambini nelle situazioni in cui regnano il caos e la precarietà. Deve anche sapersi proteggere contro le idee ultraconservatrici intorno all’argomento tabù della sessualità, in modo da non sentirsi frustrato nel suo lavoro e frenato dal pensiero che non potrà fare niente di fronte alla comunità, alla religione mal interpretata e alle idee sbagliate che si diffondono.
Sulla base della sua esperienza, perché molti siriani scelgono di venire in Europa?
I siriani che scelgono l’Europa sono persone che si ritrovano in particolari situazioni di instabilità sociale e soprattutto quando non hanno documenti di identità. Le famiglie che partono sono quelle che sperano di offrire un futuro migliore ai loro figli, lontano dalla morte di ogni giorno. I giovani che partono pensano o di poter finire gli studi o di trovare un lavoro mentre alcuni siriani lasciano perché si sentono talmente umiliati nei paesi vicini che vogliono raggiungere dei paesi che salvaguardano i diritti umani. Più in generale, i siriani che partono vogliono innanzitutto sfuggire ai massacri perpetrati dal regime di Assad e molto semplicemente vivere.
In Libano ci sono quasi 2 milioni di profughi dalla Siria. Eccetto quelli dell’UNHCR, il governo non ha mai istituito dei campi. La popolazione (poco più di 4 milioni) è divisa e spesso i rifugiati siriani non sono ben visti. Alcuni sostengono che un Paese così piccolo come il Libano non possa sostenere un peso così grande, altri credono che i siriani, sottopagati, tolgano loro il lavoro, altri ancora dicono che i siriani rubano e a volte uccidono. La Siria è stata in Libano per 29 anni, fino al 2005, e l’esperienza dei palestinesi, ancora nei campi dal 1948, sono sicuramente dei precedenti. Lei invece ha scelto di lavorare nei campi dei profughi siriani. Che cosa l’ha spinta a farlo?
In primo luogo la mia scelta è stata puramente umana dopodiché e molto francamente la mia scelta è stata politica e non temo di gridarlo forte e chiaro. Infatti è per questo che ho deciso, dopo 2 anni e mezzo, di lasciare il Libano e di stabilirmi in Turchia, dove posso lavorare con persone impegnate nella difesa della libertà di espressione, della libertà di esistere e che ogni giorno lottano pacificamente contro il regime assassino di Assad, che ha ben insegnato a noi libanesi il suo livello di criminalità, e contro Daesh.
Nel suo lavoro lei si occupa anche di ex appartenenti all’Esercito Islamico o di aderenti ad alcuni gruppi islamisti. Chi sono e da quali regioni e città arrivano?
Io non ho mai lavorato con ex membri di Daesh e non penso proprio di poterlo fare. Invece ho avuto modo di incontrare alcune persone che fanno parte di alcuni gruppi islamisti delle regioni del Nord della Siria. A dire il vero, è difficile da capire se non si conosce bene il contesto siriano, non tutti sono uguali e tutte le persone armate non la pensano allo stesso modo e non hanno le stesse ideologie.
Di che si tratta: di jihadisti pentiti o di militanti delusi?
Sono giusto persone che col passare del tempo si sono accorte che militare con le armi non porta a niente, o semplicemente gente che pensa di proteggere il proprio territorio. Cioè gli appartenenti all’Esercito Libero Siriano, che ho incontrato in particolare, non si considerano jihadisti e non sono islamisti estremisti.
Questi ex militanti hanno più necessità di essere destrutturati mentalmente o di superare l’orrore che hanno visto o magari del quale sono stati protagonisti?
Di sentire soprattutto che sono umani malgrado tutto quello che hanno vissuto, e che avranno la possibilità di rifarsi una vita, sicuramente.
Le è mai capitato di incontrare nel suo lavoro un ex-jihadista originario di un Paese occidentale?
No.
Lei ha lavorato con Reportères sans frontières. I giornalisti e gli attivisti dei media che assiste vengono dalle zone di guerra. Ci può spiegare chi sono i suoi pazienti, da quali regioni arrivano e soprattutto quali traumi hanno subito?
Ho lavorato un po’ con reporters sans frontières ma sto lavorando con diverse altre organizzazioni che si occupano dello sviluppo dei media e della tutela della libertà di stampa. Tramite loro, lavoro con dei citizen journalist, dei reporter e dei fotogiornalisti che non posso non rispettare al massimo. Sono persone che definisco «lezioni di vita», gente che viene un po’ da tutta la Siria, che affrontano quotidianamente il rischio di essere fatti prigionieri dal regime, di essere torturati, uccisi dai barili esplosivi e dagli attacchi aerei e di terra in ogni momento ma che lottano ugualmente. Persone che hanno dovuto scappare in Turchia per sfuggire al sequestro e alla morte per mano dei gruppi estremisti. Sono loro i veri eroi, i veri rivoluzionari e i custodi della verità. E essere a salvaguardia della verità in Siria spiega di per sé che tipo di trauma subiscano loro stessi e i loro concittadini.
Anche diversi giornalisti e attivisti italiani sono stati sequestrati in zone di guerra. Alcuni sono morti, altri hanno subito delle torture psicologiche o sono stati venduti come merce da una banda all’altra. Anche se i giornalisti sono abituati al pericolo e alle difficoltà, può la sofferenza e la tortura piegare la loro psicologia? Qual è il confine tra la sfera professionale e quella personale?
E’ certo che la loro psiche ne sarà toccata e che il trauma che hanno vissuto ha bisogno di essere preso in carico e trattato. La sofferenza e la tortura sono devastanti sia per l’uomo che per la donna e se non c’è una rete di sostegno che li aiuti a superare il trauma, a diventare resilienti e a ricostruire se stessi nonostante tutto, i danni nel loro animo saranno così profondi che essi saranno “devastati” per sempre. Da qui l’importanza di saper porre una distanza tra la vita personale e la vita professionale, oppure di avere pienamente coscienza di dove sia il punto in comune tra le sue sfere affinché le persone sappiano come gestire le conseguenze delle loro decisioni e delle loro scelte personali e professionali.
Lei è giovane e questo lavoro è una fatica psicologica molto forte anche per lei. Cosa glielo fa fare?
Lo ripeto, le persone con le quali lavoro sono delle lezioni di vita. Perciò per quanto il lavoro che faccio con loro possa affaticarmi e a volte travolgermi, farmi piegare, mi frustri e mi ferisca nella mia umanità, ciò non toglie che siano loro la mia forza e la mia volontà di continuare. Per sentirmi meglio, scrivo. Ho cominciato peraltro a scrivere delle piccole storie legate alle foto scattate da un fotogiornalista molto caro di Aleppo, Jalal Al Mamo, nelle cui foto di guerra e dell’impatto della guerra trovo nonostante tutto un che di speranza e di umanità. Le foto di Jalal mi aiutano ad elaborare i miei pensieri sulla resilienza e sulla vita nella morte, sui sentimenti estremi che si provano nel toccare così da vicino le situazioni traumatiche. Inoltre ora io conosco il mio limite. Ogni due mesi di lavoro intenso ho davvero bisogno di tagliare con tutto questo mondo. Allora stacco i miei telefoni, mi sconnetto e disattivo i miei social network. Faccio shopping, viaggio o torno qualche giorno in Libano dove sto coi miei meravigliosi genitori ai quali non devo spiegare quello che faccio ma che mi danno ciò di cui ho bisogno: uno sguardo amorevole.
10 novembre 2015
(Ha collaborato Simone Achkar)