Jacopo Salvadori 

In molti si sarebbero aspettati una vittoria al fotofinish, invece lo scarto tra il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo del premier Erdogan e il Partito Popolare Repubblicano di Kemal Kilicdaroglu alle elezioni comunali turche che si sono svolte domenica scorsa, è stato più che abbondante. Con un distacco del 17,4% Erdogan ha sbancato, eliminando tutte quelle tensioni e paure che avevano accompagnato gli ultimi giorni di campagna elettorale.

Con il 45,6%, il suo partito si è confermato il primo del Paese, seguito, con il 28%, dal Ppr. Il Partito del Movimento Nazionalista, braccio politico dei Lupi Grigi (il movimento estremista, ritenuto responsabile dell'attentato a Giovanni Paolo II nel 1981) non è riuscito a superare il 15%, mentre il Partito per la Pace e la Democrazia, formazione della minoranza curda collegato al Partito dei Lavoratori del Kurdistan si è fermato al 5,9%. Il dato più importante per Erdogan è di aver conservato i due centri nevralgici del Paese: la capitale Ankara con il 44,8% dei consensi, e Istanbul, che costituisce il 20% dell'elettorato totale turco, con il 48,1%.

Gli ultimi giorni di campagna elettorale sono stati caratterizzati da un clima di tensione e di ansia, causato dalla pubblicazione di alcune registrazioni private di figure istituzionali e uomini di fiducia di Erdogan, che hanno portato alla chiusura di due noti social network: prima Twitter, il 21 marzo, poi YouTube appena sei giorni dopo. Nel primo caso l'ufficio del premier ha subito spiegato che il blocco seguiva una sentenza dell'Autorità per le Comunicazioni, in cui si obbligava la piattaforma web ad eliminare i “cinguettii” potenzialmente offensivi verso i cittadini turchi. Decisione che ha fatto esplodere il popolo della rete, che ha interpretato il gesto come un diktat per zittirli, viste le imminenti elezioni. 

Stessa motivazione per YouTube che viene però oscurato a pochi minuti dalla pubblicazione on-line di due registrazioni - non ancora verificate – in cui il capo dei servizi segreti turchi Hakan Fidan, il ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu e il vicecapo di stato maggiore Yasar Guler, starebbero progettando un attacco militare in Siria contro la tomba di Suleyman Shah, che costituisce un'enclave turca in terra siriana, situata a 30 chilometri dal confine. La voce attribuita a Fidan dice chiaramente che l'attacco “non è un problema, una giustificazione può essere creata”, mentre quella attribuita a Davutoglu spiegherebbe che “il primo ministro ha detto che in questa circostanza l'attacco potrebbe essere un'opportunità”. 

Un'opportunità per distrarre i turchi dalla “tangentopoli del Bosforo”, lo scandalo sulla corruzione dei piani alti della politica e dell'economia legato al giro di mazzette – si parla di più di cento milioni di dollari – per ottenere delle licenze edilizie, che ha portato nei mesi scorsi ad una settantina di arresti, tra cui i figli degli allora ministri degli interni, dell'economia e della pianificazione urbana, oltre al licenziamento di più di 600 dirigenti e funzionari di polizia e alle dimissione di decine di parlamentari fedeli ad Erdogan.

Da quel momento è partita una vera e propria guerra contro qualsiasi tipo di opposizione. A farne le spese sono stati i magistrati circa un mese fa, con l'approvazione di una legge che aumenta i controlli da parte del potere esecutivo e conferisce al ministro della giustizia un'ampia influenza nella nomina dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura. Secondo i media turchi l'obiettivo del premier era di colpire direttamente i giudici che avevano fatto partire le indagini della tangentopoli turca, orchestrata, secondo lui, da Fetullah Gulen, il capo di una confraternita islamica un tempo fedele alleata di Erdogan e ora arcinemica.

Lo scandalo ha profondamente investito tutto il partito del premier, tanto che anche lo stesso gruppo dirigente immaginava di subire una pesantissima sconfitta alle elezioni di domenica. E invece no. Erdogan è riuscito a guidare il partito nel suo momento più difficile, organizzando più che una campagna elettorale, una vera e propria maratona, con tre comizi al giorno da una parte all'altra della Turchia, per recuperare il suo elettorato storico - musulmano, conservatore e rurale - facendo leva sulla miriade di complotti contro il Paese e contro il suo governo. Erdogan ha messo in piedi sì, una strategia vincente, aiutato però anche dalle opposizioni che non sono riuscite a fare fronte comune. Ma tutto è ancora in gioco: il 10 agosto ci saranno le elezioni presidenziali e le opposizioni dovranno fare di tutto per limare quel considerevole distacco che le separa dal primo partito turco.

31 marzo 2014

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