Emanuela Ulivi
I numeri lasciano poco spazio alla fantasia, semmai fanno riflettere sul fatto che non basta una rivoluzione – se pur di popolo- a far trionfare i diritti umani. Stando al rapporto del Centro Al-Nadeem per la Riabilitazione delle Vittime della Violenza e della Tortura, fondato al Cairo nel 1993, durante i primi 100 giorni di presidenza di Mohammed Morsi, ci sono stati 247 episodi di violazione dei diritti umani, tra sequestri, arresti indiscriminati, uso della forza verso i dimostranti, irruzioni in proprietà private, fino alle torture, alle violenze sessuali, agli assassini. Nel numero sono comprese le torture su 88 persone, la violenza sessuale su altre 7 e la morte di 34 persone ad opera delle forze di polizia che avrebbe ucciso e torturato fino alla morte: tutti casi documentati e riportati da Al-Nadeen.
Le torture si sarebbero consumate sia in prigione che nelle abitazioni private e la maggior parte delle vittime di violenza sessuale sarebbe costituita da uomini e bambini. Il rapporto cita anche una donna violentata in un ufficio di polizia. Altre 8 persone sarebbero state torturate, picchiate e minacciate dopo essere state sequestrate, portate via e interrogate da non si sa chi.
Il rapporto prosegue con gli arresti indiscriminati di lavoratori, studenti e insegnanti in sciopero, in ben 85 occasioni. In una decina di casi anche i partecipanti a dei sit-in sarebbero stati dispersi con la forza, per essere in seguito arrestati e torturati. Dieci anche le irruzioni contate nelle abitazioni private.
Tutto questo in 100 giorni. Da quando Morsi, espressione dei Fratelli Musulmani, è stato democraticamente eletto presidente della repubblica dopo la rivolta di piazza Tahrir che ha portato alla caduta di Hosny Mubarak. Eppure la fine degli abusi e dell’uso della tortura da parte della polizia era una delle rivendicazioni di base della piazza, mentre i dimostranti venivano a loro volta arrestati e sottoposti ad analoghi trattamenti. Come è accaduto anche nei 18 mesi successivi di governo da parte del Consiglio Supremo delle Forze Armate, i cui capi, sottolinea il rapporto di Al-Nadeen, costretti da Morsi a ritirarsi hanno lasciato bene o male la scena indenni.
Nei giorni scorsi il presidente Morsi ha amnistiato i dimostranti imprigionati nel 2011 per aver appoggiato la rivoluzione; un segnale positivo ritenuto però insufficiente dai militanti dei diritti umani perché non viene chiarita nettamente la differenza tra un prigioniero politico e un criminale comune. Sempre qualche giorno fa, sull’onda della reazione popolare Morsi ha rimosso il giudice che ha mandato assolti 25 fedelissimi di Mubarak accusati di aver organizzato l’irruzione sui dimostranti del 2 febbraio dell’anno scorso, passata alla storia come “La battaglia del cammelli”, in cui a bordo di cavalli e cammelli è stata caricata la folla in piazza Tahrir. Ma il giudice, Abdel Meguid Mahmud, ha rifiutato di dimettersi e il presidente Morsi ha dovuto cedere.
Il caso di Khaled Saeed, salito agli onori della cronaca dopo le foto pubblicate su Facebook nel giugno 2010, la reazione popolare che ne seguì insieme alla determinazione della famiglia a farne un caso nazionale contro la tortura, fu un balzo in avanti verso la rivoluzione, ricorda l’attivista dei diritti umani Sally Sami dalle pagine del Daily News Egypt. “Non c’è stata quindi alcuna sorpresa quando la gioventù ha indetto una grande manifestazione il 25 di gennaio (2011), giorno della festa nazionale della polizia. Era una rivolta contro l’impunità della polizia, contro la tortura e gli abusi. Qualcuno può aver pensato che se noi potevamo ottenere qualcosa dalla rivoluzione, sarebbe stata una vera riforma della sicurezza, il doverne rispondere da parte dei responsabili e la fine della tortura nei centri di detenzione, compresi i posti di polizia. Dopotutto era una rivoluzione contro la tortura e la corruzione della polizia”. Invece certe pratiche sono continuate, prosegue Sally Sami citando alcuni episodi recenti, nonostante le speranze suscitate dall’elezione del presidente Morsi.
16 ottobre 2012