Giulia Brugnolini
Oggi è il 339° giorno di rivolta contro il regime del presidente siriano Bashar Al Assad. Le vittime, stando alle cifre diffuse dal Centro di documentazione delle violazioni in Siria che è collegato ai Comitati di coordinamento locali degli attivisti presenti nel Paese, sarebbero 8.160, di cui 2930 solo nella provincia di Homs. 6.399 i civili e 1.680 tra militari e agenti. 540 i bambini e gli adolescenti morti, 245 le donne. A partire da febbraio, dall’offensiva militare lanciata su Homs dalle truppe fedeli al presidente Bashar al Assad, è stato però impossibile contare le vittime ma soprattutto identificarle, hanno fatto sapere gli attivisti. Il regime di Damasco, invece, tutt’oggi parla di “migliaia di morti” senza distinguere tra civili e militari.
Trecentotrentanove giorni di sangue che non hanno lasciato indifferente la diplomazia internazionale. Molte le iniziative messe in campo fin’ora purtroppo senza risultato, mentre la crisi siriana sta allargando i suoi confini regionali e vede di nuovo su versanti opposti vecchi attori, come gia’ in passato in Medio Oriente.
La prima a rompere gli indugi è stata la Lega Araba con il suo piano di sanzioni e un protocollo per offrire una via d’uscita alla crisi siriana e proteggere i civili. I Paesi arabi hanno proposto infatti un accordo col governo per mettere fine alle violenze, il rilascio dei prigionieri e il ritiro dei militari dalle città. Ma il protocollo che ha visto dalla fine di dicembre la presenza in Siria di 166 osservatori provenienti da 13 Stati diversi, guidati dal Generale Ahmad Mustafa Al-Dabi, si e’ scontrato con l’intransigenza del presidente Al Assad la cui indisposizione al dialogo e la continuazione delle violenze hanno portato al fallimento dell’iniziativa della Lega. Il rapporto presentato un mese dopo da Al-Dabi ,a missione ultimata, se da un lato parla di “estrema tensione, oppressione e ingiustizia sofferte dalla popolazione siriana” e dice chiaro che questo e’ “il diretto risultato dell'eccessivo uso della forza da parte del governo siriano”, dall’altra imputa la Free Syrian Army (l’esercito formato dai militari che hanno disertato) e ai manifestanti “i bombardamenti di abitazioni, di treni e veicoli che trasportavano carburante e gasolio e di aver portato a termine attentati contro le forze di polizia, i giornalisti e gli oleodotti”. Attentati che, prosegue il rapporto, “hanno inasprito i rapporti tra le parti e aumentato il livello di conflittualita’.” Un atteggiamento che ha sconcertato anche l’amministrazione americana.
Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti con Arabia Saudita e Qatar hanno presentato una risoluzione all’Onu chiedendo il ritiro dell’esercito siriano dalle strade minacciando il ricorso ad “ulteriori misure” qualora il regime non avesse implementato la risoluzione entro 21 giorni. Tuttavia, mentre la situazione degenerava con la strage ad Homs nella notte tra il 3 ed il 4 febbraio con 337 morti, 1.300 feriti, una trentina di abitazioni distrutte, massacro che l’Osservatorio siriano sui diritti dell'uomo ha definito “il più brutale bombardamento nello Stato del Tigri e dell’Eufrate degli ultimi trent’anni”, Russia e Cina apponevano il loro veto in Consiglio di Sicurezza Onu, preoccupate di un eventuale intervento armato, come accaduto in Libia, e decise a non prender parte a quella che hanno voluto vedere come una guerra tra sunniti e alawiti.
Lega Araba e Onu stanno quindi studiando altre ipotesi di intervento, stavolta in sinergia tra di loro. Una consisterebbe nell’ inviare in Siria una seconda missione di osservatori. In alternativa, l’avvio di una collaborazione con il Consiglio Nazionale Siriano - che dovrebbe rappresentare l’opposizione nella sua interezza, nonostante non sia mai arrivata a coinvolgere tutta la popolazione della quale fanno parte la minoranza curda e cristiana- e con la Free Syrian Army.
Sembra però tutt’altro che vicina la fine del conflitto in Siria, paese collocato all’interno di una regione teatro delle tensioni internazionali. E si fa sempre più sottile la linea di demarcazione tra gli interessi umanitari e quelli diplomatici. La possibilita’ di un rovesciamento del regime di Assad priverebbe infatti l’Iran di un importante alleato indebolendolo sia politicamente che economicamente. Questo fa della Siria un obiettivo strategico, specie se si pensa alle preoccupazioni sollevate dai progressi del programma nucleare di Ahmadinejad che sembra ad un passo dalla bomba atomica. D’altro canto un intervento armato potrebbe degenerare in un conflitto esteso ben oltre i confini della Repubblica Siriana, soprattutto se accompagnato da un’altra fase di instabilità post-regime come nel caso libico. Perciò, come hanno riportato gli osservatori della Lega Araba a gennaio, “la popolazione siriana pensa che la crisi debba essere risolta in modo pacifico, senza ricorrere all’intervento internazionale”. “Questo consentirebbe loro –prosegue il rapporto- di vivere in pace e di completare quel processo delle riforme che possa portare al cambiamento sperato.”
16 Febbraio 2012