Emanuela Ulivi
Lo sciopero generale proclamato sabato scorso in Egitto ad un anno dalle dimissioni reclamate dalla piazza del presidente Hosni Mubarak, non ha avuto l’effetto dirompente che si aspettavano. Promossa dai gruppi politici che compongono l’Alleanza dei Rivoluzionari d’Egitto, dagli studenti universitari e da alcuni sindacati, insieme allo sciopero era stata indetta una giornata di disobbedienza civile per chiedere al Consiglio Supremo delle Forze Armate il trasferimento immediato dei poteri alle autorità civili. Il Consiglio detiene infatti l’esecutivo esattamente dalla caduta di Mubarak, nonostante si fosse impegnato a rimanere in carica solo per sei mesi, ed ora ha promesso che passerà la mano dopo le elezioni presidenziali previste a giugno. Ma da più parti si chiede che questo passaggio avvenga subito.
Il primo di febbraio, il massacro tra le opposte tifoserie alla fine della partita di calcio a Port Said, nel quale sono morte 74 persone, la cui responsabilità è stata fatta ricadere dalla folla e da alcuni partiti sul ministero dell’Interno e sulla polizia. Rimproverando ai militari in questa occasione come in altre, di usare gli stessi metodi del regime di Mubarak. Da quel giorno gli scontri si sono susseguiti tra manifestanti e polizia al Cairo, facendo ad oggi 16 morti.
Il Consiglio Supremo, che ha avuto un ruolo fondamentale nella rivolta egiziana, ha condannato lo sciopero prefigurando un attacco alle istituzioni che avrebbe portato il Paese nel caos. Molte universita’ e scuole avevano dato la loro adesione allo sciopero, cosi’ come la Federazione indipendente del sindacato, al contrario della Federazione sindacale egiziana sponsorizzata dallo stato. E delle iniziative ci sono state, gli studenti hanno marciato, alcune categorie si sono astenute dal lavoro, ma niente che possa far parlare di un successo.
Ad evitare un probabile terremoto, visto che un anno fa proprio l’ondata di scioperi in tutto il Paese ha portato alla fine del regime di Mubarak, nei giorni precedenti oltre ai militari si erano pronunciati in diversi contro lo sciopero. L’Universita’ di Al-Azhar aveva invitato gli egiziani a recarsi al lavoro definendo lo sciopero non islamico e anche la Chiesa copta aveva chiamato in causa la religione per dissuadere gli egiziani.
Pur non avendo una rappresentanza significativa in seno alla federazione degli studenti universitari, diversamente dal Parlamento dove nelle prime elezioni del dopo Mubarak a novembre ha conquistato il 45% dei seggi, i Fratelli Musulmani si erano schierati contro uno sciopero che avrebbe potuto portare allo “smantellamento e al collasso dello stato” e avevano invitato la popolazione a lavorare il doppio nella giornata di sabato: “per costruire lo stato, non per demolirlo” e non peggiorare le precarie condizioni sociali ed economiche del Paese. Addirittura lanciando “la giornata per la pulizia dell’Egitto” che ha visto alcuni militanti del partito Libertà e Giustizia, espressione dei Fratelli Musulmani, pulire le strade del Cairo sabato, a fianco dei netturbini.
Nello stesso tempo, giusto due giorni prima dello sciopero i Fratelli Musulmani hanno chiesto ai militari di lasciare che una nuova coalizione di governo espressa dal Parlamento prenda il loro posto. Subito. Mentre sedici cittadini statunitensi appartenenti a organizzazioni non governative che operano in Egitto sono sotto accusa, capitolo spinoso che potrebbe mettere in forse il finanziamento annuale americano di un miliardo e mezzo di dollari e probabilmente anche del Fondo Monetario come di altri donatori.
Qual è quindi la strategia dei Fratelli Musulmani? L’8 febbraio, sul loro sito, IkhwanWeb, dopo aver dichiarato il no allo sciopero, il segretario generale Mahmoud Hussein argomentava: “Abbiamo avuto successo, con la Grazia di Dio, nell’eleggere un’Assemblea del Popolo che davvero ci rappresenta tutti quanti. E’ corretto quindi consegnare ora a quell’Assemblea del Popolo eletta, le nostre istanze che verranno accolte. Dobbiamo essere pazienti, comunque. Le richieste sono tante e la nuova Assemblea deve riparare alle riforme di trent’anni di corruzione dilagante, cosa che non si può fare in un giorno. E non dobbiamo dare ascolto ai media che ricorrono all’eccitazione e all’agitazione, chiamando alla violenza, al sabotaggio e alla distruzione”.
Il giorno dopo, lo stesso sito riporta alcuni brani di un’intervista di Al-Jazeera al vicepresidente dei Fratelli Musulmani, Al-Shater, nella quale questi afferma che “non abbiamo mai accusato i dimostranti di tradire o di tradimento. Appoggiamo fortemente infatti il loro diritto di espressione e di manifestare. Ma di sicuro ci opponiamo agli atti di sabotaggio già visti in patria –il più recente dei quali è stato il massacro di Port Said– che possono ripetersi”. E dopo aver distinto tra rivoluzionari e sabotatori, che “affrontare i dimostranti con la violenza è un errore, un segno di debolezza e di cattiva gestione da parte del Ministero dell’Interno”, sottolinea che “viste le circostanze noi non siamo d’accordo a che il governo di Ganzouri continui. Piuttosto dobbiamo avviare immediatamente la formazione di un governo di coalizione, che si occupi in particolare della situazione economica e dello stato di anarchia in questo Paese. Ma dobbiamo anche accelerare la formazione dei consigli comunali e l’elezione dei governatori in tutte le province”.
I Fratelli Musulmani non presenteranno alcun candidato alle presidenziali (il deposito delle candidature é stato intanto anticipato di un mese, al 10 marzo) e non hanno ancora deciso chi appoggeranno. Ma è opinione diffusa che, dopo aver evitato accuratamente di scontrarsi con l’esercito che guida la transizione in nome della stabilità del Paese, intendano ora guadagnare posizione riducendo il potere del Consiglio Supremo e le sue competenze. Con studiata pazienza.
13 febbraio 2012