Paula Iglesias 

Nelle strade di Kabul, ridotte da anni al silenzio e costrette nei divieti talebani, è esplosa la musica in tutta la sua potenza. Da quando la guerra ha fatto il suo ingresso nel Paese circa tre decadi fa, l’Afghanistan non ha più sentito il suono della musica. Il primo festival rock, dieci anni dopo l’inizio dell’operazione Enduring Freedom seguita all’attentato dell’11 settembre 2001 negli Usa, ha visto oltre quattrocentocinquanta giovani condividere dal vivo, i più per la prima volta, un’esperienza così eccitante. Gruppi musicali arrivati da Australia, Uzbekistan, Kazakistan e anche band nazionali hanno festeggiato insieme ai giovani afghani cresciuti senza conoscere l’arte della musica ma che hanno ballato per ore e ore a ritmo di blues, indie, elettronica e death metal. Uno scenario talmente stridente con la consueta immagine del Paese, dove la guerra non è ancora finita, da mettere in secondo piano l’altra faccia dell’Afghanistan, quella della paura che ha obbligato persino gli stessi organizzatori del festival a non fare pubblicità per evitare possibili azioni terroristiche di boicottaggio.

“Sono venuto per fuggire dal cancro dei talebani”, dichiara Ahmad Shah, uno degli spettatori del Sound Central che abita a Kandahar, zona di rivolte e ribelli. Dieci anni dopo la prima bomba della coalizione occidentale, la popolazione afghana è ancora immersa in una situazione ben lontana dalle aspettative – e dalle giustificazioni - della guerra. “L’Afghanistan è soltanto l’inizio” aveva affermato il presidente americano George Bush nel 2001 dopo aver dato inizio alle operazioni e ai bombardamenti. La fine dei quali avrebbe dovuto segnare l’inizio della libertà e della democrazia in Afghanistan e nella regione, ma non è ancora arrivata.
 
Uno studio sulla condizione dei prigionieri di guerra afghani condotto dalla Commissione dei Diritti Umani e dalla Missione di Assistenza in Afghanistan delle Nazioni Unite pubblicato ad ottobre, rivela che il 46% delle persone che sono passate per le carceri afghane - comprese le prigioni delle forze internazionali- ha subito interrogatori che possono considerarsi a pieno titolo delle torture. Nel 21% dei casi i prigionieri non sapevano ne erano venuti a conoscenza del motivo per il quale erano stati condannati e soltanto uno dei 324 sottoposti a rilevazione, nonostante la legge del paese garantisca un avvocato difensore durante tutto il processo, ha dichiarato di essere stato messo al corrente dell’esistenza di questo diritto durante tutto il periodo di detenzione.
 
Al conto della grave condizione dei diritti umani in Afghanistan, pur se migliorata a tratti ma non in modo omogeneo – i bambini vanno a scuola, le donne hanno uno spazio maggiore- va aggiunto il mezzo milione di  profughi. E c’è grande apprensione sul futuro una volta che gli Stati Uniti e le forze della Nato avranno lasciato il Paese, ritiro previsto entro il 2014. La prospettiva politica è infatti incerta e l’accordo coi talebani sempre più inevitabile. “Gli abusi della polizia spingono la popolazione ad appoggiare i talebani” dichiara Philip Alston della New York University School of Law, che ha seguito l’evolversi dell’insurrezione dal 2001 in poi, aggiungendo “garantire che le forze di sicurezza del governo rispettino i diritti umani fondamentali è necessario per assicurare la stabilità”.

Tortura, corruzione e insicurezza sono ostacoli di non poco conto sul percorso di creazione di istituzioni capaci di assumere il controllo del Paese. Una probabile guerra civile dopo il 2014, come qualcuno teme, renderebbe davvero amara la colonna sonora della guerra più lunga nella storia degli Stati Uniti.  

19 Ottobre 2011

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