Emanuela Ulivi 

Linciato e appeso ad un palo della luce, Mohammad Salim al-Msallem, il trentottenne cittadino egiziano già in passato reo confesso dello stupro di una ragazzina di 14 anni, è stato picchiato a morte durante il sopralluogo sulla scena di un nuovo plurimo delitto, l’omicidio degli anziani coniugi Youssef e Kawthar Abu Merhi e delle loro nipotine Amina di nove anni e Zeina di sette. La madre delle piccole, un’insegnante, li aveva trovati morti accoltellati il giorno prima, al suo ritorno a casa a Ketermaya, un “tranquillo” villaggio dello Chouf.

Qui viveva da un anno Msallem, arrestato dalla polizia e condotto nei suoi uffici dove, sembra, avrebbe ammesso anche questo massacro. Secondo alcune ricostruzioni, la notizia sarebbe stata immediatamente fatta trapelare all’esterno della stazione di polizia. Strappato dalle mani degli agenti, Msallem è stato picchiato a sangue una prima volta prima di essere trasportato in ospedale, dove sarebbe stato di nuovo preso e portato nella piazza del “tranquillo” villaggio per essere ucciso, il suo corpo nudo e sanguinante appeso con un cavo intorno al collo, tra applausi e foto scattate col telefonino da uomini e donne, mentre poco distante le quattro bare si avviavano al cimitero. E’ accaduto il 29 aprile scorso. Il giorno dopo il test del DNA sul sangue trovato sul suo pullover e sul coltello confermeranno che era lui l’assassino.

“Giustizia” è stata fatta, anche retroattiva, se è vero che nonostante l’ammissione della precedente violenza sulla ragazzina, Msallem era stato rilasciato inspiegabilmente senza alcuna imputazione. Atrocità che qualcuno ha cercato biecamente di giustificare chiamando in causa la religione, quale esecuzione del “giudizio di Dio”. Vendetta in piena regola, legge del taglione applicata. Il giorno dopo, serrande alzate e solito tran-tran, nel “tranquillo” e assonnato villaggio dello Chouf di Ketermaya.

Non un giorno qualsiasi per il Libano, costretto a guardarsi allo specchio. Ketermaya ha riportato davanti agli occhi una scena lunga quindici anni, un incubo: la guerra civile, fratricida e sanguinosa, violenza senza legge che i libanesi temono come il fuoco sotto la cenere nelle viscere del Paese. Un’idra che ogni tanto si affaccia variamente travestita. Inorriditi, molti hanno stigmatizzato l’episodio come legge della giungla, barbarie, preso le distanze, “vergognatevi”. Hanno girato lo sguardo alle istituzioni, deputate ad applicare la legge. In questa esecuzione di un semplice accusato per mano della folla inferocita, senza che l’inchiesta fosse conclusa, senza processo, hanno messo alla sbarra la verità sull’episodio. Si vuol sapere se la polizia abbia fatto tutto il possibile in questa vicenda, dall’inizio alla fine e com’è che uno stupratore abbia potuto viaggiare a piede libero per commettere poi un altro crimine. Invocano la legge, uno dei cardini della democrazia e della convivenza civile, che alla balaustra dell’uguaglianza ammette solo cittadini. Legge che quel giorno a Ketermaya non è stata invitata. Sapendo dei tanti delitti impuniti, di fronte a tanta barbarie si chiede che ora abbia corso. Senza sconti.

Il ministro della giustizia Ibrahim Najjar, che ha presentato le sue scuse “al governo e al popolo egiziano”, ha annunciato, come anche il ministro degli Interni, che questo comportamento non resterá impunito. Ma la resistenza del presidente del consiglio municipale di Ketermaya a consegnare alla giustizia dei suoi concittadini e la protesta di alcuni abitanti al momento dell’arresto di due sospetti, confermano come la legge a volte non sia sufficiente.

10 maggio 2010

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