Emanuela Ulivi 

Il 24 aprile, l’Iran ha ritirato la sua candidatura dal Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu (Human Rights Council, HRC), l’organo con sede a Ginevra che ha preso il posto della Commissione  ONU per i Diritti Umani (UNCHR) nel 2006, anno in cui l’Iran aveva già avanzato la sua candidatura, senza successo. La decisione sarebbe stata comunicata al gruppo asiatico dell’Onu annunciando, senza dare una motivazione ufficiale, che l’Iran non avrebbe preso parte all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del prossimo 13 maggio nella quale saranno eletti i nuovi quattro membri dell’HRC riservati all’Asia, al quale aspirano anche il Qatar, la Malesia, la Tailandia e le Maldive.

La candidatura dell’Iran era da tempo sotto il fuoco incrociato dei Paesi occidentali, in particolare di Stati Uniti, Francia e Canada per le violenze durante e dopo le manifestazioni seguite alla rielezione di Mahmoud Ahmadinejad alla presidenza della Repubblica Islamica nel giugno scorso. 

La situazione dei diritti umani in Iran tratteggiato nella risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 18 dicembre 2009 sulla “Situazione dei diritti umani nella Repubblica Islamica dell’Iran”, elenca le violazioni ricorrenti, comprese la tortura, le amputazioni, l’aumento delle esecuzioni capitali anche pubbliche e di minori o la lapidazione, gli arresti e la condanna di donne che si riuniscono pacificamente, la campagna contro chi difende i loro diritti, le discriminazioni su base etnica, linguistica, religiosa, le restrizioni delle libertà di espressione e di professione religiosa, la violazione dei diritti dei detenuti.

Particolare preoccupazione è espressa in questa occasione dall’Assemblea, per la risposta del governo iraniano dopo le elezioni del 12 giugno 2009: le persecuzioni, gli arresti arbitrari, l’uso della violenza e delle intimidazioni da parte delle “milizie” dirette dal Governo per disperdere i cittadini iraniani impegnati nell’esercizio pacifico della libertà di associazione, che hanno provocato anche morti e feriti.
Ancora più specifiche le infrazioni alle convenzioni internazionali, pure firmate dall’Iran, nella lettera aperta del premio Nobel Shirin Ebadi, attualmente in esilio, indirizzata il 20 aprile al segretario generale Ban Ki-Moon e all’Assemblea generale dell’Onu, perché venisse respinta l’istanza della Repubblica Islamica a far parte dell’HRC. La recrudescenza della situazione nell’ultimo anno non le impedisce di guardare all’indietro e di parlare di “legal offences”, indicando per prime le discriminazioni delle donne davanti alla legge introdotte dopo la Rivoluzione nel 1976, indicandone alcuni esempi. Alle quali aggiunge quelle operate anche su base religiosa che sono transitate nel Codice penale. Sempre in virtù della legge vengono praticate la tortura, la lapidazione, le amputazioni, la crocifissione. Lo stesso vale per la stampa e le pubblicazioni, sottoposte a censura. Mortificata anche la rappresentanza nelle istituzioni: su 300 candidati alle presidenziali del 2009, ricorda, solo quattro hanno ottenuto l’approvazione. Tutto in base a leggi introdotte dopo la Rivoluzione, sottolinea la Ebadi, sintetizzando: “per menzionare tutte le violazioni dei diritti umani presenti nella legge iraniana ci vorrebbe un libro intero”. Anche durante dopo le proteste seguite alle elezioni del 2009, funzionari di governo hanno violato i diritti umani fornendo un lungo e variegato elenco. E, richiamati alcuni pronunciamenti precedenti delle Nazioni Unite, conclude “le domande da porsi quindi sono: merita la Repubblica Islamica dell’Iran, che ha violato i diritti umani per anni, di far parte del Consiglio dei Diritti Umani? Può uno stato che ha trascurato e ignorato finora le risoluzioni dell’ONU dare valutazioni corrette sull’osservanza dei diritti umani in altri paesi? Speriamo che rigettando il tentativo dell’Iran di essere membro del Consiglio dei Diritti Umani, possiate attirare l’attenzione delle autorità iraniane sul loro operato e che così facendo condizionerete la sua appartenenza al Consiglio all’applicazione delle risoluzioni ONU sulle violazioni dei diritti umani in Iran, in particolare della risoluzione 64/176 del Dicembre 2009”.

Lo stesso giorno ha scritto all’Assemblea generale dell’ONU anche un gruppo composto da 12 attivisti, tra i quali Akbar Ganji, Parvin Ardalan, Mohsen Makhmalbaf che si presentano così: “Noi, vittime di  diverse violazioni dei diritti umani per mano del governo iraniano, abbiamo sempre cercato di convincere il governo a rispettare gli obblighi del trattato e i legittimi diritti del popolo iraniano. Eppure ogni volta abbiamo trovato dall’altra il silenzio e una crescente repressione”. Contestano che l’Iran abbia gli standard previsti per far parte del Consiglio dei Diritti Umani e chiedono ai membri dell’Assemblea di votare “No” all’Iran e “Si” ai milioni di iraniani che guardano alle Nazioni Unite e al Consiglio dei Diritti Umani per promuovere e proteggere i loro diritti fondamentali.

Già davanti al testo del draft della risoluzione approvato in Commissione, l’Iran aveva obiettato l’abuso del meccanismo dei diritti umani dell’ONU, per piccoli opportunismi politici che riducono il concetto di diritti umani a strumento di politica estera da parte di alcuni stati, creando un’atmosfera conflittuale erosiva della capacità dell’ONU di condurre una significativa promozione  dei diritti umani. Tendenza pericolosa della quale la risoluzione era un esempio, invitando le delegazioni dell’Assemblea generale ad opporsi alla strumentalizzazione del concetto di diritti umani a scopi politici e alla manipolazione del meccanismo dei diritti umani. Si contestava il doppio standard di alcuni Paesi, tra i quali il Canada, sponsor principale della risoluzione sui diritti umani in Iran, che avevano però votato contro la risoluzione dell’Assemblea sul rapporto della missione ONU sulla guerra a Gaza, in cui si denunciavano violazioni dei diritti umani da parte di Israele. Paesi che oltretutto, secondo il rappresentante permanente dell’Iran all’ONU nella sua dichiarazione in cui dà alcuni esempi, non hanno a casa loro dei record difendibili in fatto di diritti umani. La bozza di risoluzione già approvata conteneva inoltre alcune informazioni ritenute false, niente a che vedere con la realtà. Riguardo alle elezioni del 12 giugno 2009, rilevata la discrepanza tra quanto riportato nella risoluzione e il contenuto del rapporto del segretario generale, si sottolinea che “Tanto per ricordare, nel giugno del 2009 il popolo iraniano ha partecipato alla decima elezione presidenziale con un afflusso inedito pari all’85% degli aventi diritto al voto. L’elezione è stata un’altra dimostrazione della natura democratica e dell’apertura del sistema politico della Repubblica Islamica dell’Iran. Il meccanismo previsto nelle leggi elettorali e i regolamenti nella Repubblica Islamica dell’Iran sono precisi e sufficientemente comprensivi da preservare e garantire i diritti dei votanti e quelli dei candidati e forniscono mezzi di ricorso adeguati per indirizzare qualsiasi protesta o preoccupazione in merito ai risultati delle elezioni”.

Una mossa politica dunque e un uso strumentale dei diritti umani, secondo l’Iran. Quattro giorni dopo il trentunesimo anniversario della Rivoluzione islamica l’11 settembre, l’Iran è stato sottoposto alla procedura dell’Esame Periodico Universale dall’HRC riunito a Ginevra, che non ha risparmiato critiche. Critiche di “una cricca organizzata” ha ribattuto Mohammad Javad Larijani, capo della delegazione dell’Iran che ha rigettato una parte essenziale delle raccomandazioni rivolte alla Repubblica Islamica (45 quelle rifiutate, 123 quelle accettate, su 20 si sono riservati di rispondere), che riguardano soprattutto i diritti umani coi quali il regime si è misurato negli ultimi trent’anni e in particolare dopo le elezioni del 2009. Tra queste, rigettata la raccomandazione di bloccare le esecuzioni dei minori e quelle sulle garanzie processuali, le indagini sulle denunce di tortura, compreso lo stupro, la liberazione delle persone incarcerate per aver esercitato pacificamente i loro diritti umani. Rigettata anche una revisione del codice penale che puntualizzi o cancelli alcuni reati sottraendoli alla manipolazione politica, tipo “i reati contro  la sicurezza nazionale e internazionale”, spesso usati per ridurre la libertà di espressione, di assemblea e di associazione. 

Difficile non leggere questo passo indietro, nel ritiro della candidatura ad entrare nell’HRC, un legame col dossier del nucleare, come sostiene lo stesso Iran, ora che anche la Russia (che ha firmato recentemente il trattato START 2 con gli Usa sulla riduzione delle armi nucleari) sembra favorevole alle sanzioni e la Cina, pur continuando a prediligere la via del dialogo, è propensa a trattare l’argomento all’ONU, aggiungendosi alla schiera dei Paesi occidentali che non si fidano degli scopi civili dichiarati del programma nucleare iraniano. La stima del Generale Petraeus è che entro il 2010 l’Iran non riuscirà a dotarsi dell’arma nucleare, ma gli USA temono che l’Iran possa costruire entro il 2015 un missile capace di raggiungere gli Stati Uniti. Timore tacciato come parte della guerra psicologica, ha risposto l’Iran smentendo quell’intenzione.

C’è anche un’altra questione che va di pari passo a quella del nucleare: la presenza degli Usa - e non solo - nel Golfo, dove l’Iran ha esteso la sua presenza allarmando sia le potenze occidentali che i loro alleati nella regione. Alla fine di aprile i guardiani della rivoluzione hanno effettuato tre giorni di manovre nel Golfo “arabo-persico” e nello stretto di Ormuz, passaggio vitale per il commercio mondiale del petrolio, testando vari tipi di missile che, secondo quanto dichiarato, “possono raggiungere tutti gli obiettivi” e alcune armi laser precise “al 100%”.

Un’esercitazione che, hanno sostenuto, non costituisce una minaccia per nessun Paese amico, senza mancare di sottolineare  il ruolo costruttivo ed efficace dell’Iran nel mantenimento della sicurezza regionale. Ma una padronanza del nucleare da parte dell’Iran innescherebbe una corsa all’armamento nucleare nella regione, cosa che Obama vuole evitare.

4 maggio 2010

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