Emanuela Ulivi 

BEIRUT - Quattro in Parlamento e due nel governo, ossia il 3,125% dei 128 deputati, dopo le elezioni del giugno scorso e il 6,6% dei ministri nel nuovo governo di Saah Hariri.  “La legge sulle quote è stata bocciata e anch’io pur venendo da una famiglia che è sempre stata in politica, ho dovuto lottare per arrivare” afferma Gilberte Zouain, riconfermata presidente della Commissione parlamentare sulla Donna e l’infanzia. “Il 50% delle professioni liberali –prosegue- sono in mano alle donne ma non si è abituati a vedere la donna in politica. Eppure ci sono segni di cambiamento: è la prima volta che una donna è ministro delle finanze, una donna capace”. Insieme a Sethrida GeageaBahia Hariri, Nayla Tuéni, la Zouein siede in Parlamento, dove nella legislatura precedente erano sei. Con Mona Afeiche Choueiri, nominata dal Presidente della Repubblica Ministro di Stato e a Raya el-Haffar alle Finanze, costituiscono la pattuglia rosa all’interno delle massime istituzioni dello Stato libanese. Una presenza che non solo non arriva a coprire la poliedricità comunitaria del Paese rappresentata sia in Parlamento che nel Governo come prevede la Costituzione, ma neanche riesce a dare voce alla gran parte delle donne impegnate da anni nella società civile per affermare i loro diritti. Talvolta anche quei diritti già consolidati in alcuni dei vicini Paesi arabi ma ancora da venire in Libano, il Paese che si vuole il più occidentalizzato della regione. Sulle retribuzioni salariali, fa sapere la Zouain, sono gia’ stati presentati dei disegni di legge che sono gia’ avanti, mentre un altro versante della battaglia riguarda la possibilitá per le donne libanesi sposate con stranieri di dare la loro nazionalitá ai propri figli. 

Il tetto di vetro è ancora molto solido e non basta che per la prima volta una donna, Amal Haddad, sia stata eletta presidente dell’Ordine degli Avvocati di Beirut a ottant’anni dalla sua istituzione. La questione dei diritti delle donne infatti non riguarda soltanto l’accesso ai vertici delle istituzioni, tanto pubbliche che private; coinvolge piuttosto una serie di diritti fondamentali da evidenziare nel tessuto culturale, religioso e sociale, in uno stato in cui non esiste il diritto di famiglia ma sono in vigore tanti diritti quante sono le comunità. 

E’ più facile per le donne arabe ottenere i loro diritti politici che il loro diritti civili, si è detto al congresso sul femminismo arabo organizzato da alcune ricercatrici libanesi lo scorso ottobre, durante il quale, a proposito della religione musulmana, è stato sottolineato che il femminismo islamico ha dimostrato che la religione non è un ostacolo alla liberazione della donna, ma che c’è differenza tra i testi religiosi e il modo in cui questi vengono applicati dagli uomini.

Mohammad Hussein Fadlallah, guida spirituale degli sciiti libanesi ma anche studioso di grande apertura e punto di riferimento non solo in materia religiosa ma anche politica, sociale, sulla famiglia, ha emanato una serie di fatwa sulle donne, compresa quella che dà loro il diritto di difendersi dalla violenza fisica e sociale, suscitando reazioni anche contrarie. In un’intervista a Now Lebanon Fadlallah spiega infatti i presupposti del suo pensiero e di essersi reso conto di dover cambiare concetti poco realistici e grezzi secondo i quali la religione sottovaluta la donna, per provare che la religione concepisce gli uomini e le donne uguali. Consapevole che nella società in cui viviamo la donna è stata sempre considerata un essere umano secondario, afferma nell’intervista: “Credo che la nostra società sia ancora sottosviluppata, frutto di una situazione storica di arretratezza. Le nostre società sono state testimoni dell’ineguaglianza tra uomini e donne; perfino nelle società sviluppate vediamo che le donne che lavorano sono pagate meno degli uomini nonostante i loro compiti e la loro produttività possano essere superiori. E’ perciò che l’uomo si sente ancora più forte della donna e cerca di opprimerla. Così abbiamo emanato una fatwa grazie alla quale la donna ha il diritto di autodifendersi se un uomo la perseguita. Il diritto di autodifesa è un diritto umano. Questa fatwa ha urtato molti che hanno pensato che io volessi distruggere la famiglia. Ma io ho ritenuto che chi offende, piuttosto che chi è offeso, distrugge la famiglia”.

Proprio la violenza domestica sulle donne è oggetto di un disegno di legge che sottrae la materia alla giurisdizione dei 15 tribunali religiosi per affidarne la competenza al sistema giudiziario civile. Il disegno sarà portato presto in aula, assicura Gilberte Zouain, che non nasconde le difficoltà nell’affiancare delle leggi civili al diritto comunitario in un sistema confessionale come quello libanese. “Penso che si potrà cominciare col matrimonio civile”, aggiunge, matrimonio che se celebrato all’estero viene però riconosciuto in Libano. Nel sistema democratico libanese, multiconfessionale, le cause di violenza domestica vengono portate davanti ad uno dei tribunali religiosi competenti in materia coniugale, divorzi, tutela dei figli e questioni inerenti la persona.
Il timore di squilibri confessionali, in un Paese in cui l’argomento della deconfessionalizzazione -pure raccomandata nell’Accordo di Teef e recentemente sollevata dal presidente del Parlamento, Nabih Berry- è ancora molto sentito a vent’anni dalla guerra civile ed ha fatto naufragare qualunque tentativo di riforma dei tribunali religiosi. Cosicché continua a sussistere una  forte differenza tra il diritto civile e il diritto religioso e tra il diritto dei Cristiani e quello dei Musulmani, ad esempio riguardo la violenza coniugale, l’età del matrimonio, l’affidamento dei figli in caso di divorzio.

Sottratte ai tribunali religiosi la trattazione della violenza domestica, considerata fin’ora come attinente la sfera privata, della quale sono vittime le donne ma anche i bambini, significa dare gli stessi diritti alle donne musulmane e alle donne cristiane e segnare una tappa importante sulla via della parità tra uomini e donne. “Si tratta di una legge per prevenire la violenza domestica” precisano all’associazione Kafa, dove dal 2005 si sono rivolte un migliaio di donne ed è attivo un centro di ascolto ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette. Dal 2007 Kafa ha iniziato a lavorare con un team di esperti alla stesura del disegno di legge; quello in discussione oggi è una nuova versione del testo, dopo le obiezioni sollevate da alcuni partiti ed è stata concertata coi ministeri degli Affari sociali, degli Interni, della Giustizia. Nessuna religione infatti ammette la violenza sulle donne, ma non è così automatica la perdita di una competenza tanto rilevante. Il disegno di legge sulla violenza in famiglia prevede la creazione di tribunali specifici competenti nel diritto di famiglia e la presenza nelle udienze, oltre che del giudice, degli assistenti sociali, di medici legali e di psicoterapeuti. Al posto della prigione, per il colpevole è prevista la riabilitazione coattiva, il risarcimento alla parte lesa e il pagamento delle spese mediche, un alloggio alternativo per quest’ultima. Ma, se la legge passerà, chiunque d’ora in poi sarà testimone di un caso di violenza domestica è obbligato a denunciarlo, anche alle forze di polizia che dovranno disporre di unità specializzate sul territorio.   

Non esiste una statistica nazionale sulla violenza contro le donne in Libano dove si differenziano a seconda delle regioni in cui vivono, delle tradizioni, della cultura. Ma ogni anno oltre 500 donne ricorrono ai centri di aiuto (dodici le associazioni sparse sul territorio). La violenza colpisce, fanno sapere a Kafa, sia le fasce ricche che quelle povere, con la differenza che le donne ricche possono divorziare, mentre le meno abbienti, non avendo mezzi per vivere da sole, non possono lasciare la casa e continuano a subire abusi e violenze. Kafa non solo ha un numero verde ma assicura alle donne e ai bambini un servizio sociale, psicologico e legale, attraverso un contatto con l’assistente sociale che valuta la sua situazione sia in caso di divorzio sia che ci sia margine per recuperare la relazione coniugale e familiare. Solo tre centri in tutto il Libano accolgono le donne che fuggono da casa ed uno della Caritas ospita le colf, principalmente straniere, che si sottraggono a violenze e maltrattamenti: in tutto, una cinquantina le donne ospitate.

Troppo poco. Le donne picchiate dai loro mariti che si rivolgono a Kafa sono infatti molte di più di quelle violentate, anche se la gamma dei casi riscontrati comprende la violenza fisica, sessuale e psicologica. “Sono donne abusate fisicamente, non solo sessualmente, ma anche psicologicamente, picchiate, a volte bruciate con l’acqua, le sigarette, donne alle quali vengono sottratti i figli”. La violenza coniugale è ancora poco individuata come tale da molte donne, ritenuta parte di “un dovere” da accettare. Ma c’è chi ha compreso quanto sia sottile la linea che divide un sogno da realizzare da un sogno infranto. 

Difficile è reagire, elaborare. Alcune ci stanno provando. “Behind the doors”, la mostra fotografica inaugurata agli inizi di dicembre, ospitata al Ministero del Turismo, rimbalza tutta la violenza subita, in 200 foto realizzate da 10 donne che hanno trovato il coraggio di tirar fuori il loro dolore. Kafa ha dato ad ognuna una macchina fotografica ed ha insegnato loro come usarla. Perché, come ha ricordato Zoya Rouhana, direttrice di Kafa, aprendo con questa mostra le due settimane di campagna contro la violenza di genere, “la nostra battaglia mira a far uscire la violenza contro le donne dalla sfera privata a quella pubblica, questione che non è individuale o personale ma un problema sociale che tocca tutte le donne e le ragazze della nostra società, di qualunque estrazione sociale, religiosa e culturale”. L’iniziativa  è stata promossa in partenariato con l’Ambasciata italiana: una delle tante rivolte alle donne come parte di una strategia a vasto raggio adottata in Libano dal nostro Paese, particolarmente mirata dopo la guerra del 2006 allo sviluppo non solo economico ma anche sociale, che ha nell’empowerment delle donne e nelle politiche di genere uno dei suoi punti di intervento qualificativi. Sia a fianco delle istituzioni che delle tante associazioni della società civile, nelle varie regioni del Libano. 

La richiesta di aiuto e poi l’avvio di un percorso personalizzato con il team di Kafa, dove  lavorano quattro assistenti sociali, tre psicologi e cinque avvocati. Nelle stanze accoglienti dell’associazione, nel centro di Beirut, tra operatrici preparate e sorridenti, disponibili ad affiancare la donna perché ritrovi la sua dignità, la prevenzione è sinonimo di cultura. Qui si è capito che l’uomo è sì parte del problema ma è soprattutto il cuore della soluzione. Ed è su di loro che si focalizzano alcuni studi e alcuni dei loro progetti di lavoro. Non parlano solo con le donne e le ragazze, nelle varie associazioni e sul territorio, alcuni psicologi e operatori sono impegnati con i giovani, per far capire loro che si può essere forti senza ricorrere all’uso della violenza ed è così che si è uomini. E stanno lavorando ad un centro di riabilitazione per gli uomini che abusano delle donne con un approccio globale, per limitare il fenomeno in ogni forma. Anche i bambini sono infatti vittime di violenze e di abusi sessuali; il tasso dei bambini abusati in Libano, è calcolato intorno al 16,1%, soprattutto nella fascia che va dagli otto ai 17 anni. E un altro versante di intervento sarà il traffico dei bambini e delle donne a scopo sessuale. Nella prima campagna del fiocco bianco contro la violenza sulle donne, anche gli uomini sono invitati ad indossarlo. Un segno, una battaglia.

Immagine: una delle 200 foto esposte in mostra

12 gennaio 2010

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