Emanuela Ulivi
La coalizione del 14 marzo ha vinto domenica scorsa le elezioni legislative in Libano sconfiggendo Hezbollah, il Partito di Dio sostenuto dall’Iran e dalla Siria, e i cristiani del generale Michel Aoun, componenti insieme ad Amal e ad altre formazioni più piccole della coalizione dell’8 marzo, aggiudicandosi 71 dei 128 deputati in Parlamento. Particolarmente delicata quanto imprevedibile fino all’ultimo, questa elezione ha registrato un inedito 54% di affluenza alle urne –con punte del 70% in alcune circoscrizioni- tasso superiore persino a quello del 2005 del 45,8 nelle elezioni seguite alla “rivoluzione dei cedri” e all’uscita dell’esercito siriano dal Paese. Sotto gli occhi vigili di oltre duecento osservatori dell’Unione Europea, del Centro Carter e di altre istituzioni, più della metà dei 3 milioni e duecentomila libanesi iscritti nelle liste elettorali si è recato alle urne nella sola giornata di ieri, a differenza delle scorse tornate elettorali spalmate in quattro domeniche.
L’importanza politica di questa consultazione, che ha visto una gran mobilitazione di persone e mezzi e richiamato in patria diverse migliaia di libanesi espatriati, è dovuta a diversi fattori sia interni che esterni al Libano, questioni che hanno animato la campagna elettorale alle quali il risultato dello scrutinio dovrà dare risposta: “Il mondo intero vedrà il successo dell’esperienza elettorale libanese – ha dichiarato il ministro degli Interni uscente Ziad Baroud - La sfida più grande è ora dare seguito ai risultati elettorali”.
Il Libano infatti è andato alle urne un anno dopo gli scontri del maggio 2008 e gli Accordi di Doha cui sono seguiti l’elezione del presidente della repubblica, il maronita generale Michel Slueiman, e la formazione del governo di unità nazionale presieduto da Fuad Siniora, che accordava all’opposizione il terzo di blocco, ossia quel diritto di veto reclamato dalle forze di opposizione. Acquisizione questa che assicurava certe garanzie ad Hezbollah -e al suo arsenale- e al generale Aoun quella presenza nel governo rifiutata nel 2005 dopo elezioni nelle quali la coalizione del 14 marzo, la cui forza maggiore è composta dai sunniti della Corrente del Futuro di Saad Hariri, lo avrebbero penalizzato. Il generale Aoun, nel nome del rilancio della componente cristiana, aveva quindi siglato il 6 febbraio 2006 un documento di intenti col Partito di Dio che a sua volta aveva appoggiato la sua candidatura alla presidenza della repubblica, in seguito ritirata.
Che cosa accadrà ora? Si farà di nuovo un governo di unità nazionale come quello appena sciolto o si tornerà alla consuetudine formando un governo in cui sono presenti tutte le componenti comunitarie ma che non prevede il terzo di blocco?
Fallito nei suoi intenti, svuotato dalla guerra tra Israele ed Hezbollah nel 2006, raccomandato a Doha, il dialogo nazionale sulle armi di Hezbollah è stato rimandato a dopo le elezioni.
Hezbollah, il partito che insieme ad Amal si è confermato ieri nelle sue roccaforti al Sud e nella Beqaa come maggiore formazione della comunità sciita, lo ha detto prima delle elezioni e ribadito il giorno successivo, rivendicando di essere una forza di resistenza: le armi di Hezbollah sono fuori discussione e riguardo alla formazione del governo, il deputato del Blocco della Resistenza Hassan Fadlallah ha chiesto l’adozione di una partnership e l’accettazione del principio del consenso. Ricordando che il periodo trascorso non poteva continuare a lungo in Libano, perché ha portato a delle tragedie ed ha provato che nessun partito può far uso dell’autoritarismo.
Posizione che Nabih Berry, presidente della Camera uscente –e probabilmente riconfermato ancora-, sicuro che nel Sud i cittadini avrebbero confermato con un “plebiscito” le armi della resistenza, ha a sua volta anticipato dicendo che il prossimo governo sarà di “unità nazionale” e che il terzo di blocco è già stato adottato anche prima di Doha. Pochi giorni prima delle elezioni ha dichiarato che il Libano non puo’ essere governato senza il consenso e che “Ogni democrazia nel mondo ha il suo marchio di fabbrica. Quello del Libano e’ il consenso”, quasi echeggiando le affermazioni del presidente americano Barak Obama nel suo discorso all’Universita’ del Cairo il 4 giugno scorso, a proposito della democrazia: “Permettetemi di essere chiaro: nessun sistema di governo può o deve essere imposto da una nazione a un'altra –ha detto- Questo non significa, naturalmente, che il mio impegno in favore di governi che riflettono il volere dei loro popoli, ne esce diminuito. Ciascuna nazione dà vita e concretizza questo principio a modo suo, sulla base delle tradizioni della sua gente. L'America non ha la pretesa di conoscere che cosa sia meglio per ciascuna nazione, così come noi non presumeremmo mai di scegliere il risultato in pacifiche consultazioni elettorali...”
Su questo punto Saad Hariri ha dichiarato che a Doha, il 14 marzo non ha approvato “un nuovo costume costituzionale”, ma un compromesso che aveva per obiettivo di far uscire il Libano dall’impasse: “Non ripeteremo un’esperienza che e’ stata una sconfitta”.
Appoggiata dai Paesi occidentali, la vecchia maggioranza, composta da partiti che ora vedono riconfermato il loro consenso, alla vigilia delle elezioni aveva messo in chiaro quale fosse la posta in gioco per il Libano nel caso di vittoria dell’opposizione, una vittoria peraltro auspicata dal presidente iraniano Ahmadinejad. Ma ora saprà parlare con una sola voce traducendo la volontà degli elettori che si sono espressi chiaramente? Infatti proprio sul governo di unita’ nazionale cominciano i primi distinguo.
Le elezioni legislative in Libano hanno, come sempre, un notevole rilievo regionale e nella compagine internazionale. Nel 2005 furono per l’amministrazione USA di Bush esempio, insieme alle elezioni in Iraq, dell’inizio di una nuova era di democrazia in Medio Oriente, dove si profilava per contro l’asse del male che metteva all’indice l’alleanza tra la Siria e l’Iran.
Nell’era di Obama, era di aperture a Siria e Iran, della volonta’ di dare una svolta al conflitto israelo-palestinese, il risultato elettorale del Libano non e’ meno importante. Anzi.
Israele che alla vigilia aveva messo in guardia sul pericolo derivato da una eventuale vittoria della coalizione guidata da Hezbollah, dopo aver attribuito la sconfitta dell’opposizione alla guerra del 2006 di Hezbollah contro Israele, ha affermato che il prossimo governo dovrà impedire qualunque attacco contro Israele dal suo territorio e che di questi lo riterrà responsabile.
Dall’altra, la stampa siriana, che alla vigilia del voto aveva auspicato un consolidamento della resistenza rappresentata da Hezbollah che aveva riportato “grandi vittorie” contro Israele, di fronte ai risultati ha accusato la coalizione antisiriana vincitrice –per la seconda volta consecutiva- di aver vinto le elezioni con l’aiuto del “denaro politico”, bustarelle e voti comprati.
Se le premure di Hezbollah nell’assicurare al Libano gli aiuti del Fondo Monetario e dell’Unione Europea anche in caso di vittoria dell’opposizione, sono ormai superate dalla vittoria della maggioranza filooccidentale, è importante vedere quale sarà l’atteggiamento degli Stati Uniti, in particolare riguardo agli aiuti militari a quelle forze armate nelle quali molti chiedono che confluiscano le armi di Hezbollah, le stesse che, una volta capaci di disporre di mezzi moderni e quindi in grado di difendere il Paese, per altri dovrebbe togliere ragioni all’esistenza della formazione armata sciita.
La difficoltà nel gestire il risultato elettorale è tutta nelle parole del leader sunnita Saad Hariri: “La strada è ancora lunga e difficile e i pericoli internazionali, regionali e interni sono reali”.
9 giugno 2009