Emanuela Ulivi
Le affermazioni del magazine tedesco Der Spiegel della settimana scorsa, secondo il quale il Tribunale Internazionale Speciale, istituito dall’Onu, avrebbe nuove prove che dietro l’assassinio dell’ex premier libanese Rafik Hariri ci fosse Hezbollah, arrivano a due settimane dalle elezioni per il rinnovo del Parlamento. Secondo quanto riportato, l’inchiesta non punterebbe quindi più il dito verso la Siria, ritenuta coinvolta nell’attentato fin dalla commissione d’inchiesta presieduta da Detlev Mehlis, ma sul Partito di Dio che ha subito rigettato le affermazioni del magazine tedesco come “invenzioni”, architettate per influenzare le prossime consultazioni elettorali del 7 giugno prossimo.
Daniel Bellemare, capo del Tribunale Speciale per il Libano che il 29 aprile ha rilasciato i quattro generali libanesi imprigionati subito dopo l’attentato, ha preferito non commentare. La Siria, per bocca del suo ministro degli esteri Walid Muallem, ha liquidato le accuse del magazine tedesco come bugie. Il capo della diplomazia israeliana, Avigdor Lieberman, ha chiesto un mandato internazionale di arresto contro il segretario del Partito di Dio, Hassan Nasrallah. In Libano invece le posizioni sono differenziate e più caute, sia per non surriscaldare il clima della campagna elettorale, sia perché molti non credono che la Siria, che nel 2005 subito dopo l’attentato ha ritirato le sue truppe dal Libano sull’onda della “rivoluzione dei cedri” sia del tutto estranea, anche nel caso in cui Hezbollah, protetto dalla Siria, fosse in qualche modo coinvolto.
Der Spiegel avrebbe appreso da fonti vicine al Tribunale Speciale, "verificate attraverso la consultazione di documenti interni”, che l’indagine sull’attentato ad Hariri sta per compiere una svolta sensazionale sulla scorta di intense indagini condotte in Libano, che indicherebbero le forze speciali di Hezbollah come quelle che hanno pianificato e portato a termine l’attentato all’ex premier libanese il 14 febbraio 2005. Informazioni delle quali Bellemare sarebbe al corrente da tempo.
Il servizio parla delle indagini condotte dal capo delle Forze di Sicurezza libanesi, il capitano Wissam Eid –poi ucciso in un attentato il 25 gennaio 2008- su otto telefoni cellulari acquistati a Tripoli prima del febbraio 2005 e su un secondo gruppo di venti telefoni cellulari, tutti, hanno scoperto gli investigatori, appartenenti al “braccio operativo” di Hezbollah. Uno di questi sarebbe stato usato da Abd al-Majid Ghamlush per chiamare la sua ragazza, imprudenza che avrebbe condotto gli investigatori alla mente dell’attentato, Hajj Salim, considerato il comandante dell’”ala militare” di Hezbollah che vive nel quartiere Sud di Beirut e la cui “Unità operativa speciale” riferisce direttamente al segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah. Lo stesso che avrebbe preso il posto di Imad Mughniyah, uno dei capi di Hezbollah, ucciso il 12 febbraio 2008 in un attentato vicino a Damasco.
Ma per quale ragione Hezbollah avrebbe eliminato Hariri? La spiegazione avanzata da Der Spiegel non convince, anzi molti sono scettici in Libano dove si era già a conoscenza di questa ipotesi e ci si interroga ora in merito all’articolo del settimanale tedesco, pubblicato a due settimane dalle elezioni che danno per vincenti, pur di stretta misura, le forze dell’opposizione guidata dal Partito di Dio, mentre stanno proseguendo gli arresti di presunti appartenenti ad una rete spionistica israeliana. Ultimo quello del Colonnello Mansour Diab, che ha ammesso di aver fornito ai servizi segreti israeliani, il Mossad, informazioni su Hezbollah e sull’esercito siriano fin dal 1997, in cambio di generosi compensi.
Secondo Hezbollah, quanto sostenuto da Der Spiegel è l’ultima puntata di una strategia che mira al disarmo del Partito di Dio, stavolta creando discordia nel Paese. Un tentativo, dicono, iniziato con la risoluzione ONU 1559 del 2004, proseguito con la guerra del 2006 e reiterato nel 2008 quando il governo libanese –filo-occidentale- ha cercato di smantellare la rete di telecomunicazioni di Hezbollah. Che per tutta risposta non ha esitato a rivolgere le armi non contro “il nemico israeliano” ma contro gli stessi libanesi, in particolare verso gli appartenenti alla Corrente del Futuro, a capo del quale è ora Saad Hariri, provocando il 7 maggio e nei giorni successivi 67 morti e molti feriti. Data la cui ricorrenza è stata celebrata dal segretario di Hezbollah, come “giornata gloriosa” per la resistenza.
La conferenza di Doha ha scritto il resto della storia: è stata sbloccata l’elezione del presidente della repubblica che ha portato Michel Suleiman a Baabda; un nuovo governo “di unità nazionale” ha conferito all’opposizione, della quale fa parte anche il partito del generale cristiano Michel Aoun, un terzo dei ministri (11 su 30), ossia il potere di veto che chiedeva; è finita la protesta dei partiti dell’opposizione che occupavano dal dicembre 2006 le piazze intorno al Parlamento.
Ma dopo le elezioni, chiunque vinca, varranno ancora le regole fissate a Doha o quelle precedenti? Ci sarà di nuovo un governo come quello che scade o no? Da qui la portata cruciale delle elezioni che oppongono la coalizione dell’attuale maggioranza, il cosiddetto “14 marzo”, alle forze di Amal, il cui segretario è il presidente del Parlamento, Nabih Berry, ai cristiani del generale Aoun, ad Hezbollah, che in Libano ha costituito uno stato nello stato ed è consapevole del suo ruolo regionale.
Intanto l’opposizione, che ha già incassato l’augurio del presidente iraniano Ahmadinejad, il quale ha affermato che “la vittoria dell’opposizione cambierà lo status nella regione”, continua a criticare la stessa presidenza della repubblica accusandola di interferire nella campagna elettorale, critiche che danno adito a non poche ipotesi, mentre i Paesi occidentali guardano a Suleiman come al garante delle istituzioni.
Gli Stati Uniti, che hanno inserito Hezbollah nella lista delle organizzazioni terroristiche, seguono da vicino gli sviluppi: si sono recati in Libano prima Jeffrey Feltman, poi David Hale, Hillary Clinton, David Petraus e infine la settimana scorsa il vicepresidente Joseph Biden. La posizione dell’amministrazione degli Stati Uniti, ha dichiarato, dipenderà dalla politica del governo che sarà formato dopo le elezioni, ossia gli USA valuteranno le forme dei programmi di assistenza sulla base della composizione del nuovo governo e delle sue politiche. Un aiuto per il quale gli USA dal 2006 hanno speso un miliardo e trecento milioni di dollari, dei quali 400 milioni in aiuti militari al governo di Siniora, che si aggiungono a quelli di altri Paesi occidentali. Questione questa che, stando al Financial Times, preoccuperebbe lo stesso Hezbollah, che starebbe trattando col Fondo Monetario Internazionale e l’Unione Europea per il proseguimento dei finanziamenti anche in caso di vittoria dell’opposizione.
29 maggio 2009