Emanuela Ulivi
Esteta, certo, ed eccentrico interprete del gusto della sua epoca oscillando tra il romanticismo, il dandismo e il decadentismo, Frederick Stibbert, mezzo italiano e mezzo inglese, facoltoso, fu un vero bulimico del bello. Ritratto coi baffi a manubrio o in costumi esotici, diede spazio al suo mondo onirico fino a fare della sua dimora un museo. Il suo museo, dove ricevette spiriti affini, da D’Annunzio a Oscar Wilde, alla regina Vittoria. Collezionò dagli antiquari in giro per l’Europa opere e manufatti di pregio, testimonianze di quelle arti minori che accanto ai capolavori si possono vedere al Victoria & Albert Museum o allo stesso Bargello. Sistemò la sua villa di Montughi come un castello e guarnì il giardino, dove fece erigere un sacello dopo il suo viaggio in Egitto nel 1869 per l’inaugurazione del canale di Suez, delle sue suggestioni. Frederick Stibbert acquistò di tutto: il suo museo è oggi una delle collezioni più importanti al mondo di costumi, armi e armature, donato alla città di Firenze. I suoi bravissimi artigiani, in un periodo in cui il purismo filologico era di là da venire, operarono sapienti riparazioni, tutte riconoscibili, esaltando il manifatturiero fiorentino. Furono ricreati volti e atmosfere per spalancare le porte al passato, come se il museo fosse una macchina del tempo. E alla favola. Tutto doveva essere una messa in scena: le 56.000 opere sono distribuite nelle varie sale ricreate nello stile di ciascun periodo, una per una. La Sala delle Armi Islamiche è una di queste, costruita appositamente con stucchi ripresi dall’Alhambra di Granada, come a schiudere una favola mediorientale.
L’eclettico Frederick acquistò oggetti mediorientali da subito. La collezione islamica conta 12.000 pezzi, gran parte dei quali esposti nelle due sale dedicate, tra suppellettili, armi, abiti. Molti gli abiti di civili, dal Caucaso, dal subcontinente indiano, dalla Turchia, di epoche che vanno dal ‘500 al tardo ‘800, ben conservati in deposito. Sono stati esposti al Museo del Bardo Tunisi, al Museo delle Arti Islamiche di Kuala Lampur e nel ’99 allo Stibbert nella mostra L’abito per il corpo Il corpo per l’abito. La collezione di armi islamiche conta armi bianche, da fuoco, migliaia di archi e frecce, provenienti da tutto il Nordafrica e dai paesi asiatici. Quelle più antiche sono del 400, le altre spaziano fino all’800. Guerrieri e armi sono di origine ottomana, dei Mamelucchi, vengono dalla Persia dei Safavidi fino alla dinastia dei Qajar, dai regni Moghul e Sind. Come con l’abolizione dei samurai in Giappone, il mercato antiquario fu invaso dalle loro armature, lo stesso era accaduto con lo scioglimento in Turchia, nel 1826, del corpo dei Giannizzeri. E’ così che accanto alle armature europee, addossate a cavalieri in sella, ai bellissimi guerrieri giapponesi nelle loro pose enfatiche, troviamo, fieri e sognanti, 4 guerrieri a cavallo e 11 fanti dei paesi islamici. Che recano incisi sulle bardature, come d’uso, dei versetti del Corano. Due di queste armature risalenti al XVIII secolo, una del Sind l’altra indiana, indossate da due guerrieri a piedi, sono state restaurate di recente a cura dell’Associazione Nazionale Italia Kuwait, che ha sede a Firenze e collabora col Museo Stibbert, dove sono state riproposte al pubblico ai primi di luglio in occasione della presentazione del libro A fianco di un piccolo paese – L’impegno dell’Associazione Italia – Kuwait dal 1990 ad oggi.
L’armatura del Sind, quella composta da copricapo con visiera ribaltabile, corazza, bracciali, arnesi e schinieri, che aveva più bisogno di riparazioni come ha spiegato il curatore dell’Armeria dello Stibbert, Riccardo Franci, è una rarità che risale al periodo in cui la regione era dominata dagli emiri della tribù dei Talpur, che resistettero al potere dal 1783 al 1843 quando fu conquistata dalle truppe britanniche e annessa all’impero. Dato il breve dominio dei Talpur, furono realizzate poche di queste armature e ancora meno ne sono sopravvissute nella loro forma completa. Questa allo Stibbert è decorata con rapporti in ottone lavorati a giorno e ornati a motivi vegetali e floreali. L’altra armatura, indiana, in maglia di ferro e elmetto, è anch’essa decorata splendidamente da motivi che richiamano l’ambiente dei giardini reali, con piante e uccelli in volo. “La maglia di ferro che al tatto assomiglia quasi a una stoffa, le scarpe ricamate a filo d’argento con la loro punta all’insù, ma anche la forma stessa del busto denotano quella appariscenza ricercata, tipica degli ambienti nobiliari”, conclude Franci. Che spiega che nel mondo islamico la maglia delle armature e la loro finezza fanno la differenza: realizzate da artigiani specializzati che plasmavano i singoli pezzi uno per uno, con un lavoro lungo e raffinato e le parti in lamina d’acciaio con proporzioni eleganti e simmetriche perfette.
Posate su manichini da 100 anni, complete di stoffe e parti in pelle, combattendo contro le ingiurie del tempo, queste armature parlano ancora di grandi manifatture e di arti andate perdute. E continuano a tramandare l’idea romantica del guerriero e i valori della cavalleria, tanto cari all’800, tanto vagheggiati ai giorni nostri.
6 agosto 2018