Giulia Brugnolini
La parola “rivoluzione”(dal tardo latino revolutio, -onis, rivolgimento) indica un mutamento improvviso e profondo che comporta la rottura di un modello precedente e il sorgere di un nuovo modello. Quando si parla di “rivolta” invece ci si riferisce ad una ribellione collettiva, anche violenta, contro il potere costituito. I media europei molto spesso si sono rapportati alla Primavera Araba, il più importante evento geopolitico del 2011, paragonato da alcuni storici alla decolonizzazione del Nordafrica, con termini anche diversi tra loro, spesso alternandoli senza distinzione. “Rivolta, Rivoluzione, Rinascimento, Risveglio, non sono termini innocenti semanticamente. Dietro c’è la comprensione anche di quello che è accaduto”. Massimo Campanini, docente di Storia dei Paesi islamici all'Università di Trento, ha introdotto con queste parole il workshop di storiografia sulle radici delle trasformazioni del mondo arabo, che si e’ tenuto a Firenze il 21 e 22 gennaio scorsi.
Dopo aver sottolineato come sia difficile fare storiografia su avvenimenti così recenti, Campanini ha spiegato che mentre tutte le rivoluzioni sono anche rivolte, non tutte le rivolte poi diventano rivoluzioni. Ciò che ha accomunato gli avvenimenti in Tunisia, Egitto, Libia, Yemen e Siria, è stata l’insofferenza di un popolo di giovani - sempre più istruiti - per i regimi dittatoriali , esacerbata dall’impennata dei prezzi dei generi alimentari, e la concertazione di forze inizialmente apartitiche che hanno animato le piazze. Fatta eccezione per la Siria, in cui la guerra civile tra forze di regime e ribelli non accenna a concludersi, negli altri casi dittatori come Ben Alì, Mubarak, Gheddafi e Saleh sono stati spodestati e sostituiti. “Lo status quo è cambiato” ha commentato Campanini “Ma il nuovo (cioè i governi di transizione che si sono costituiti, n.d.r. )viene dalle file del vecchio regime.”
È il caso della Tunisia in cui la rivolta, preparata dalle grandi agitazioni operaie del bacino minerario di Gafsa del 2008 ha ricordato Campanini, è scoppiata dopo il suicidio di Mohamed Bouazizi ed è riuscita a provocare la cacciata del rais Ben Alì. Tuttavia, alla fine del regime, causata in parte anche dalla posizione degli Usa che non desideravano più la presenza del dittatore, e’ seguito un periodo di incertezza e una “deriva securitaria” in cui è stata attuata una vera e propria guerra psicologica diffondendo voci allarmiste su un probabile attacco terroristico da parte di ex poliziotti di Ben Alì, allo scopo di restituire legittimità agli apparati di sicurezza. In quel momento i partiti di opposizione che avevano cavalcato l’onda delle rivolte, hanno per lo più perso i loro connotati “rivoluzionari” ritenendo come prioritario il collegamento con esercito e polizia per la difesa della popolazione. Nel governo di transizione che si è formato dopo sotto la guida di Mohamed Ghannouchi, sono confluiti quindi alcuni esponenti dei partiti dell’opposizione e tecnici di orientamento liberista, fortemente influenzati dagli USA, provenienti per lo più dal vecchio regime.
Anche in Yemen, ha ricordato Campanini, “tutto è cambiato affinché niente cambi”, come scriveva Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo. Come previsto dall’accordo firmato dall’ex presidente dello Yemen Alì Abdallah Saleh e dal Consiglio di Cooperazione del Golfo, che nei mesi precedenti si era impegnato a porre un freno alla rivolta della popolazione, il 21 febbraio 2012 si sono svolte le presidenziali a candidato unico, vinte, nonostante il tentativo dei ribelli Houti nel Nord di boicottare i seggi, da Rabbuh Mansour Hadi, per 17 anni vice di Saleh. Come se non bastasse il presidente uscente ha ribadito la sua intenzione di rimanere in politica e ricandidarsi nel 2014.
In Egitto le elezioni parlamentari vinte dai Fratelli Musulmani non hanno posto fine alle proteste che adesso vedono contrapposti l’ex leader degli stessi Fratelli Musulmani nonché presidente della repubblica, Mohamed Morsi, alle forze laiche e gli altri partiti di opposizione che temono una deriva islamista. Lo scorso 25 gennaio, in occasione del secondo anniversario della prima protesta in piazza Tahrir, le manifestazioni in tutto l’Egitto hanno assunto i caratteri di un dissenso contro l’attuale presidente, sfociate in violenza che hanno causato quarantadue morti e centinaia di feriti. Anche qui niente sembra essere cambiato: vinte le elezioni, i Fratelli Musulmani hanno concesso poteri speciali all’esercito che potrà arrestare e processare la popolazione proprio come ai tempi di Mubarak, come dimostra l'episodio del ragazzo denudato e picchiato dalla polizia, le cui immagini hanno fatto il giro del mondo.
Perfino in Libia ci sono molti nodi che il Consiglio Nazionale di Transizione, riconosciuto da buona parte della comunità internazionale all’indomani della caduta di Muhammar Gheddafi, che ha assolto il compito di organizzare libere elezioni e redigere una nuova costituzione, deve ancora risovere ad esempio la “questione federale” della Cirenaica, regione che possiede circa il 60% delle risorse petrolifere del paese e rivendica una posizione di maggiore autonomia nei confronti dello stato centrale, e la questione della sicurezza, visti gli scontri ad opera delle Brigate degli ex “tuwar”, i miliziani rivoluzionari.
“La realtà è assolutamente in movimento” ha affermato Campanini. L’assetto istituzionale in questi Paesi è evidentemente cambiato ma avremmo potuto parlare di rivoluzione solo se la situazione si fosse completamente ribaltata. Tuttavia le ribellioni collettive che hanno agitato questi stati nel 2011 hanno avuto un'eco molto più ampia, riuscendo a sconvolgere totalmente l'agenda politica anche dell'Unione Europea. Ed ha concluso: “ritengo che né rivolta né rivoluzione siano termini calzanti. Penso che questo evento geopolitico possa essere meglio definito dalla parola ‘risveglio’, perché è più onnicomprensiva e cattura una realtà in continuo mutamento”.
4 febbraio 2013