Emanuela Ulivi 

Gli spari fuori dalla porta di casa, gli stupri e le torture tra le mura domestiche, davanti agli occhi dei bambini. La violenza sessuale come arma non è una novità nelle guerre e quella che si sta combattendo in Siria da marzo 2011 non fa eccezione. Ma stando alle testimonianze è una delle cause di fondo per cui intere famiglie sono scappate e continuano a lasciare la Siria per rifugiarsi oltreconfine in Libano, Giordania, Turchia, Iraq. Una realtà denunciata dall’International Rescue Committee dopo che una delegazione ha raccolto a novembre le voci dei rifugiati, nel rapporto “Siria: una crisi regionale”, in cui donne e ragazze vengono definite senza mezzi termini “sotto attacco” e di cui aveva parlato anche l’organizzazione Refugees International.  “Ci siamo arresi di fronte alla realtà dello stupro” ha confessato all’IRC un rifugiato in Libano, sottolineando la consistenza del fenomeno nella guerra civile che oppone i ribelli al regime di Bashar al-Assad. “Molte donne e ragazze - continua il rapporto- hanno raccontato di essere state aggredite in pubblico o nelle loro abitazioni, soprattutto da uomini armati. Questi stupri, a volte di gruppo, spesso si consumano davanti ai familiari”. Cui i violentatori aggiungono non di rado umiliazioni accessorie. 

Ma non finisce qui. Perché un donna violentata, in quel contesto sociale è motivo di vergogna e disonore per tutta la famiglia. Cosicché raramente le donne e le ragazze confessano di aver subito violenza sessuale. Temono di essere “punite” dai loro aggressori oppure di essere uccise dai loro stessi familiari, per il “disonore” che  ricadrebbe su tutta la famiglia. Tanta è la paura vengano violentate che molte famiglie fanno sposare le figlie alla svelta, mentre altre, riporta l’IRC, ricorrono al matrimonio precoce in caso siano state stuprate, per salvaguardare il loro onore. C’è anche il caso di un padre che ha sparato a sua figlia quando è stata avvicinata da un gruppo armato, per prevenire la “disgrazia” di essere violentata. Varcata la frontiera, tutte queste persone avrebbero bisogno non solo di assistenza materiale ma anche psicologica. Qualche volta la trovano; altre volte, sotto le tende nei campi dei rifugiati, lo stress spinge ad altre violenze domestiche.

Secondo le cifre dell’Agenzia ONU per i Rifugiati (UNHCR) diffuse ai primi dell’anno, i rifugiati registrati nei paesi confinanti sono 600.000, mentre 200.000 sarebbero quelli non registrati o non contati. L’UNHCR prevede si arrivi presto a un milione se i flussi continuano al ritmo attuale. I rifugiati sarebbero 189.579 in Libano, 68.645 in Iraq, 176.569 in Giordania, 150.906 in Turchia. A questi vanno aggiunti i 18.168 ospitati in Egitto e nei Paesi del Maghreb.

In Siria gli sfollati sono oltre 2 milioni e, sempre secondo l’ONU, 4 milioni di siriani hanno bisogno di aiuti umanitari. Nel rapporto dell’IRC le testimonianze parlano di milioni di siriani che lottano per vivere, tra violenze e distruzioni, case bombardate, interi quartieri rasi al suolo. Le famiglie in fuga dalle città e dai villaggi trovano riparo dove possono, alcuni dormono presso parenti o amici, altri all’aperto o nelle case abbandonate. Si spostano per evitare le zone più calde della guerra ma non esistono aree sicure nel Paese. Ad oggi sono oltre 60.000 i morti, decine di migliaia i feriti, ci sono persone sequestrate, imprigionate, migliaia di scomparsi.

Quelli che ce l’hanno fatta a oltrepassare il confine, vivono l’angoscia di aver perso tutto: la casa, il lavoro, i riferimenti di una vita normale. Temono che la guerra inneschi –in un Paese in cui non c’erano scontri confessionali- l’odio tra le comunità, specie tra gli alauiti e i sunniti, e che non sarà facile dopo venirne a capo. Guardano da lontano il loro Paese mentre viene distrutto e che alla fine della guerra civile andrà ricostruito. Il patrimonio culturale sbriciolato dalle bombe, che si porta via molto di più: “La guerra non sta distruggendo solo il nostro passato e il presente, ma anche il nostro futuro”.

14 gennaio 2013

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