Giulia Brugnolini 

I messaggi arrotolati in bottiglia, le storie sopravvissute ai capricci del mare si scordano difficilmente. Neanche Barbara Gloria le hanno dimenticate. Nel caos iniziale, quando quei ragazzi sono arrivati a Follonica e neanche sapevano dire il loro nome e cognome, loro erano lì, ad ascoltarli e ora, sei mesi dopo, li ritrovano a Massa Marittima infagottati in felpe e giacconi, nel freddo di quella che era una delle città minerarie della Maremma. Barbara è la ragazza dello sportello immigrazione che per prima cercò di dare ascolto alle loro richieste appena scesero da quell’autobus chiedendo “Where are we?”, dove siamo. Gloria, del gruppo di  volontariato “Heos”, è stata la loro professoressa d’Italiano che tra una difficile lezione e l’altra portava ai ragazzi frutta e dolcetti.  

Questi, seduti nelle ultime file, silenziosi, cercando di capire qualche parola di italiano, sono i protagonisti di un convegno in cui la Protezione Civile, la Provincia di Grosseto e il Consorzio Società della Salute fanno il punto sulla gestione dell’emergenza profughi e il presidente della provincia, Marras, tesse le lodi del modello toscano.
Ma in una pausa sigaretta tra una tavola rotonda e una relazione, la parola “emergenza” è un vago ricordo: sono solo abbracci che i due Mahmoud, Hiis, Obsige, Bachir, Indho, Youssef, Adam, Hamed scambiano con Barbara e Gloria al sole delle undici. Il loro è un legame che non dimenticheranno mai. Né gli uni né le altre. Un po’ in Italiano e un po’ in inglese, per farmi capire, cerco di sapere qualcosa di questa loro esperienza in Toscana. I loro sono larghi sorrisi ma sentono la mancanza del mare e quando scherzo che adesso è freddo e comunque non si può fare il bagno, Ildho, 20 anni, mi risponde che a lui basterebbe guardarlo, come faceva a Follonica ma non può fare a Massa Marittima. Appena nomino la cooperativa “Il Nodo”, fanno subito i nomi di Aristide, Adamo, Roberto, Michele, Massimo, gli amici coi quali hanno lavorato quest’estate sulle spiagge di Follonica e visto che li conosco non perdono l’occasione per mandare i loro saluti.

Insieme continuiamo a chiacchierare anche mentre, per la pausa pranzo del convegno, ci dirigiamo al rifugio S.Anna, quello che è diventato un villaggio multietnico, dove ci sono altri ragazzi arrivati con l’emergenza profughi. Qui è davvero un villaggio multietnico; ragazzi, ragazze e bambini, nuovi e vecchi arrivati, cristiani e musulmani dalla Somalia, dal Ciad, dalla Nigeria, dal Ghana e dal Pakistan condividono questa esperienza dopo il loro ultimo viaggio fatto di sogni e speranze, quando sono partiti per la Libia, tappa intermedia di quasi tutte le storie. Infatti nonostante avessero trovato lavoro e costruito con pazienza le basi di una nuova vita, la guerra aveva distrutto i loro “castelli in aria”. Ma Ildho, il più loquace di tutti, mi mostra orgoglioso l’atrio del rifugio, poi la cucina, dove mi presenta alcuni suoi coinquilini impegnati a cucinare, quasi che questa fosse la sua terra ferma. Arriva anche Barbara. Ildho Bachir, di soli 17 anni, le dicono entusiasti che due settimane fa hanno ottenuto l’asilo politico.

I due, tra un piatto e l’altro, a Barbara raccontano che fa freddo, la caldaia è difettosa, qualcuno ha smarrito il ticket multi corse dell’autobus e che alle loro richieste si sentono rispondere non di rado “domani”. Bachir le dice, guardando lontano, di sentire come non mai la mancanza della mamma, che non vede da cinque anni. Barbara gli spiega che quando otterrà il permesso di soggiorno potrà far arrivare la sua mamma con un visto turistico.  

Il frutto del lavoro di una decina di donne pakistane decora un’intera parete della sala convegni. Cinquanta quadrati di stoffa di riutilizzo sono stati cuciti assieme per realizzare la “coperta dell’amicizia”. Già si parla di una cooperativa di sartoria femminile, e chissà che da una semplice coperta non possa nascere una realtà imprenditoriale. Bachir si volta per salutarmi: “alla prossima”, mi dice, in perfetto italiano.

22 Novembre 2011

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